Tutti noi adulti siamo anche genitori.
Due cose lasceremo ai nostri figli: questa terra e questa società.
Come gliele vogliamo lasciare?
Care amiche e Cari amici,
vi presento due libri che ritengo speciali, e voglio perciò parlarvene in modo diverso da come faccio di solito; senza servirmi di presentazioni già pubbliche e anche senza riportare citazioni dal testo. Voglio comunicarvi le riflessioni che essi mi hanno suscitato, le convinzioni che essi mi hanno chiarito e incoraggiato a sostenere.
1.- Sono due libri che raccontano due vite, o meglio la vita di due persone e contemporaneamente la vita di due famiglie: perché ogni vita è una realtà personale, intima e unica ma contemporaneamente collettiva, familiare e sociale; ogni vita è il risultato di tanti eventi, personali e sociali, di piccoli dettagli che di solito sembrano insignificanti e di eventi storici che fanno da contesto; ma tutti, con uguale dignità, costruiscono una vita. In mancanza anche di uno solo di loro, la vita di quella specifica persona sarebbe diversa.
2.- Sono libri che raccontano la vita di due persone che hanno testimoniato valori: in particolare la dignità, la libertà di ogni persona e la solidarietà che ci lega tutti, tutti! Purtroppo sono valori che sono continuamente insidiati: ci sono ogni giorno mille occasioni e pretesti per disinteressarcene, per adattarci a situazioni umilianti e rinunciare alla nostra dignità, alla nostra libertà e soprattutto incontriamo mille occasioni per rinunciare alla solidarietà verso il nostro prossimo. Sono valori che non entrano nella nostra vita tramite vacue raccomandazioni o farisaici precetti, ma solamente attraverso la testimonianza e la dedizione ad essi della propria vita; solo così, da vita a vita, essi vivono e vivranno da generazione in generazione. Perciò ritengo particolarmente opportuno accostare la lettura di questi due libri perché si tratta di un figlio che racconta come suo padre è diventato partigiano e di una madre che racconta come suo figlio è diventato partigiano! Ecco il dialogo e la testimonianza fra due generazioni!
3.- Eccoli:
– Adelmo Cervi (con Giovanni Zucca): IO CHE CONOSCO IL TUO CUORE. Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio.
Edizioni Piemme, Milano 2014.
– Egidia Beretta Arrigoni: IL VIAGGIO DI VITTORIO.
Baldini Castoldi Dalai, Milano 2012.
Per l’approfondimento:
– Ovviamente tutti potete leggere o consultare molte altre pubblicazioni, libri e film, sui fratelli Cervi.
– Vittorio Arrigoni: GAZA. RESTIAMO UMANI. Il manifesto-manifestolibri, 2011.
– Testimonianza breve di una ragazza della sua esperienza in Palestina. (Agosto 2014)
4.- Ve li consiglio veramente con il cuore; soprattutto vi invito a presentarli ai giovani, vostri figli o altri con cui abbiate un rapporto professionale e di amicizia. Quando ho chiesto ad Adelmo di scrivermi una dedica sul libro, mi ha risposto: “Non lo dedico a te, ma a tuo figlio, perché è lui la nostra speranza!”. E a lui è stato dedicato. Io pure ho letto questi libri in un modo diverso da come leggo tutti gli altri. Quando leggo un libro tengo sempre in mano una matita e lo sottolineo tanto: ma questi li ho letti senza toccarli con la matita perché mi auguro che, quando mio figlio sarà in grado di leggerli, possano essi entrare nel suo cuore integri, non mediati dalla mia lettura/interpretazione. Li ho presi in prestito da lui, e voglio restituirglieli puliti e integri.
5.- Le vite raccontate in questi libri sono “politiche” perché esse sono entrate consapevolmente nella comunità e vi hanno lasciato il segno. Anzi, Aldo e Vittorio, hanno donato la loro vita alla comunità. Politica, testimoniano Aldo e Vittorio, è interesse e impegno per la comunità; non è starsene chiusi nel proprio tornaconto. Politica è parola, è dialogo, è scelta, è progetto per il futuro: parlare, confrontarsi, analizzare la realtà per comprenderla e per scegliere da che parte stare; capire che non è possibile stare da nessuna parte, non è possibile trovare una equidistanza, una assenza di differenza. Nessuna vita è apolitica, ogni vita fa la differenza. Ognuno, che sia consapevole o no, sceglie da che parte stare! E loro hanno scelto!
6.- Le vite raccontate in questi libri sono “politiche”. Oggi purtroppo il termine politico è talmente screditato che se qualcuno dicesse, per esempio a me o a voi, “sei un politico” ci offenderemmo!
Consentitemi una riflessione. Perché riteniamo normale interessarci di eventi sportivi, iscriverci a un club per il tempo libero o a una associazione civile, umanitaria, animalista, ecc., ma non a un partito o a un movimento politico? Perché fra i tanti argomenti delle nostre conversazioni non sono mai incluse le nostre opinioni politiche? Eppure in esse aderiscono la nostra visione della vita e i valori che le conferiscono senso. Perché non ne parliamo né con gli amici né con i parenti, né con i colleghi? Per non turbare i nostri rapporti con loro! O per rispettare il principio costituzionale che “il voto è personale ed eguale, libero e segreto”? Il principio costituzionale è giusto quando siamo chiamati a votare, ma non trasformiamolo in un alibi per nasconderci, per tacere e per disinteressarci della nostra appartenenza alla comunità.
Eppure la “politica” è quella dimensione del nostro agire che riguarda la gestione delle risorse che prendiamo in prestito dai nostri figli e nipoti con l’obbligo morale di restituirgliele senza compromettere il loro futuro. E’ quella dimensione del nostro agire che riguarda anche la creazione della nostra e della futura comunità, delle regole e dei valori che daranno senso alla convivenza nostra e dei nostri figli.
7.- Le vite di Aldo e di Vittorio sono state politiche. Essi hanno agito in tempi e in modi diversi. Aldo con la parola, Vittorio con la stampa e i mezzi informatici. Entrambi consapevoli e coerenti fino a alla morte.
Aldo, da esemplare parrocchiano, ha “svoltato” verso la politica tramite la lettura di un libro passatogli clandestinamente da un compagno di carcere. Da quel momento la sua presa di coscienza si è trasformata in comunicazione, diffusione, solidarietà, e azione per trasformare la sua condizione, non solo la sua, di contadino mezzadro, umiliato e impoverito, in un cammino di conquista della dignità e della giustizia per tutti. Parlava con tutti; per condividere, analizzare, comprendere e agire insieme.
Vittorio, attraverso una onlus internazionale, ha vissuto esperienze temporanee di solidarietà e aiuto in varie situazioni e infine ha scelto di stare dalla parte dei palestinesi. E’ stata una scelta di vita: vivere per loro e con loro. Per essere la loro voce, per essere il loro strumento per dire al mondo l’oppressione e le privazioni che subivano: dignità, libertà, miseria, ecc. sia personali sia collettive. Mancanza gravissima, se non totale, di dignità e diritti umani!
8.- Mi sono chiesto quale titolo porre a questa lettura civile. Cioè un titolo che accomunasse il significato di queste due vite. Avevo l’imbarazzo della scelta: testimonianze, vite donate, vite travasate, valori e generazioni, liberazione, partigiani, ecc. Ho scelto partigiani, e credo che capirete perché. Provate anche voi a scegliere il vostro titolo preferito.
Varese 14.10.2014 Mario Cucchi / Nonno Nuvola
nonno.nuvola@gmail.com
Testimonianza breve dell’esperienza di (*) in Palestina.
(Agosto 2014)
Vi chiedo 5 minuti per leggere questo post. Per me e non solo per me sarebbe importante.
Una settimana fa tornavo dalla Palestina. Nei giorni scorsi ho incontrato tanti amici e familiari a cui ho raccontato della mia esperienza in quei territori, ma ogni volta avevo la sensazione di non aver detto abbastanza, di non aver fatto capire appieno le situazioni che avevo vissuto e la drammaticità delle storie che mi erano state raccontate. Un’amica mi ha consigliato di scrivere un resoconto di questo viaggio e pubblicarlo. Inizialmente mi sembrava solo una bella idea, ma non osavo farlo o credevo non interessasse a nessuno, poi è diventata un’esigenza e un’urgenza quella di raccontare perchè vorrei che davvero tutti sapessero cosa ho visto, imparato e vissuto in 10 giorni in Palestina, e se non tutti spero almeno di raggiungere e rendere più cosciente qualcuno di voi.
In 10 giorni io ed altri ragazzi italiani e palestinesi che non conoscevo ed ora considero amici abbiamo girato tantissimo, incontrato persone di tutte le età, responsabili di associazioni palestinesi, abbiamo visitato luoghi bellissimi, ma crudelmente ingabbiati e ogni luogo, ogni persona, ogni associazione erano una storia diversa. Purtroppo erano anche tutte la stessa storia di violenza, segregazione e regime militare di apartheid. No, non sto esagerando. L’ho semplicemente e crudelmente visto. A Betlemme, all’Aida Camp, dove il sabato mattina l’aria era irrespirabile per la puzza della “skunk water” usata dai militari israeliani per disperdere la folla. Un odore che spero nessuno senta mai e che invece permane nelle case dei Palestinesi per giorni e giorni.
A Hebron dove i Palestinesi non possono nemmeno camminare in alcune zone della città e per raggiungere la loro moschea devono passare attraverso un checkpoint, due tornelli e un controllo dei militari israeliani perchè la strada principale della città è stata chiusa come anche tutti i negozi che si trovavano lì causando l’ovvio trasferimento di migliaia di Palestinesi che non potevano più esercitare la loro attività commerciale e, conseguentemente, mantenere loro stessi e le loro famiglie. E ogni negozio sprangato di Shuhada street così come ogni casa abitata da Palestinesi è marchiato con la stella di David come segno di spregio e rivendicazione di una proprietà che però è stata tolta ad altri. Hebron è divisa in due e attraversare il checkpoint dalla parte israeliana a quella palestinese (checkpoint peraltro ora chiuso in seguito agli scontri delle ultime manifestazioni, ciò implica che i bambini non possono andare a scuola e nessuno si può spostare) è un’esperienza scioccante e si ha la sensazione di arrivare quasi in un altro Paese tanta è la discrepanza in termini di ricchezza e stile di vita fra un lato e l’altro. A Hebron in alcuni luoghi il cielo non si può vedere perchè, se si vogliono guardare le stelle, bisogna anche accettare le pietre e l’immondizia che i coloni israeliani tirano dalle loro case su quelle dei palestinesi e sul loro mercato così il cielo viene sostituito dalle più protettive reti metalliche e teli di plastica.
Abbiamo provato la violenza a Bel’in, un piccolo villaggio a ridosso del muro, dove ci sono state tirate bombe sonore e lacrimogeni per il solo essere lì vicino a quel muro insieme agli abitanti (donne e bambini compresi) per ripulire i loro terreni da tutti i candelotti e i piccoli ordigni lanciati dai militari israeliani nei mesi precedenti. Abbiamo lavorato per 10 minuti in tranquillità, senza urlare alcuno slogan, senza insulti o atti violenti e poi è arrivato il primo botto, poi il primo lacrimogeno e poi il secondo, il terzo e poi smetti di contarli perchè non credi a quello che stai vedendo, perchè pensi che semplicemente non ci sia una ragione, perchè non capisci e ti aspetti che quindi smettano. Ma non smettono, fino a quando non te ne vai, incuranti di tutto: delle donne, dei bambini, dei ragazzi e degli uomini che cercano di spiegarsi con la maglia alzata per mostrare che non sono armati:”Non stiamo facendo nulla di male, stiamo solo pulendo, che cosa fate? Sono ragazzi, sono internazionali”. Niente. Te ne devi andare. Non c’è possibilità di ribattere. I lacrimogeni e le bombe sonore devono restare in mezzo ai campi. E la cosa più brutta forse è vedere che 3 minuti dopo l’accaduto i bambini che prima scappavano piangendo dal muro stanno saltando sul tappeto elastico del loro piccolo parco giochi e realizzare come tutto questo per loro sia normale. Abbiamo visto il muro che ha diviso villaggi e tolto terreni coltivabili alla popolazione, i checkpoint che i Palestinesi devono attraversare a piedi sottoponendosi a infiniti controlli anche solo per andare a lavorare o a scuola (e non tutti possono attraversarli).
Abbiamo conosciuto ragazzi di 18 anni che non hanno mai visto il mare perchè non possono andarci, ma sono già stati arrestati o malmenati almeno un paio di volte dai militari israeliani.
E abbiamo visto altri ragazzi di 18 anni, con l’apparecchio ai denti e il mitra a tracolla e pensavamo che erano più piccoli di noi, che potevano essere quelli dall’altra parte dal muro che lanciavano i lacrimogeni e realizzavamo che erano gli stessi ragazzi accanto ai quali avevamo bevuto e ballato in un qualsiasi pub di Gerusalemme centro. Nessuno di loro aveva scritto in fronte: “Sono un soldato”, ma lo erano tutti ed era inquietante non vedere alcun segno di questa esperienza nei loro volti.
E abbiamo visto il New Askar Camp a Nablus, 7000 persone in un chilometro quadrato, le capre nelle case e le tombe nei kindergarden, perchè gli animali gli servono e i loro morti li devono seppellire, ma non hanno lo spazio. Dalla finestra di una casa potevamo toccare quella vicino, la privacy è un lusso che nessuno si può permettere.
E nonostante tutto questo, la Palestina ci ha fatto innamorare tutti: i bambini che ti corrono incontro nelle strade salutandoti e chiedendoti una foto, i vecchi che ti offrono il tè anche se l’acqua che hanno a disposizione è pochissima, famiglie che ti fanno entrare in casa loro e offrono il pranzo a 35 persone, uomini che ogni giorno da anni subiscono violenze e ingiustizie che ti dicono che tu e quel gruppo di ragazzi italiani che sono con te siete i migliori perchè avete scelto di fare quell’esperienza e potete raccontarla ad altri. Abbiamo visto la Palestina che resiste, che non si rassegna a vivere nei campi profughi, che non si dimentica; famiglie che conservano le chiavi delle case da cui sono stati scacciati nei quasi 70 anni di occupazione israeliana, ragazzi che hanno il coraggio di mettersi davanti ai lacrimogeni e rispedirli oltre il muro. Ci sono associazioni in ogni villaggio che organizzano attività per bambini e ragazzi, cercando di diventare per loro un sostegno e punto di sfogo; ragazzi armati di telecamere che documentano i quotidiani soprusi a cui sono sottoposti per difendersi da false accuse, ma soprattutto per cercare di informare più persone possibili.
Abbiamo visto la forza che c’è dovunque: oltre le bombe, oltre l’occupazione, oltre l’ingiustizia e ci siamo innamorati. Non poteva andare diversamente.
Ora, nelle mia casa tranquilla e sicura, la Palestina mi manca e un po’ mi sento in colpa per scrivere dalla mia tranquillità e sicurezza.
E scusate se ci ho preso la mano, ma vi assicuro che è ancora poco.
Grazie se siete arrivati fino a questo punto.
(*) Questa testimonianza mi è giunta tramite una e-mail che la presentava con queste parole. La protagonista appartiene a un gruppo di quattro giovani, due ragazze e due ragazzi di Alba, che hanno partecipato al campo-giovani di Assopace a Ramallah il mese scorso [cioè in agosto 2014], e sono tornati molto carichi di emozioni, conoscenze, e voglia di parlarne. Speriamo che queste esperienze possano continuare e moltiplicarsi.
Ritengo opportuno non rendere pubblico il nome della protagonista poiché non ho potuto contattarla personalmente per ottenere la sua autorizzazione.